Rue Saint Dominique



Arrivarono durante la prima settimana di dicembre. 

Ancor oggi penso di non aver mai provato felicità più limpida e brillante di quella che mi invase quel giorno. Benché tutto, per me, si riduca ormai ad un ricordo affievolito, quasi un’immaginazione di ricordo. Specialmente quando penso agli anni dell’infanzia, a volte fatico a distinguere la memoria originaria da tutti i racconti che nei - numerosi, ahimé! - anni successivi me ne sono fatta.

Io e mia sorella li avevamo aspettati dando sapore all’attesa; in un certo senso  la ingannammo dilatandola: avevamo deciso di lavorare ad una specie di calendario dell’Avvento anticipato creato appositamente per il loro arrivo. Chiedemmo quindi a nostra madre di comprare due fogli grandi di cartoncino il cui colore era stato oggetto di numerose discussioni bisbigliate sotto alle coperte. Per quanto il colore di uno dei due fosse stato subito da noi individuato come rigorosamente bianco, mia sorella insisteva perché, riguardo a quell’altro, lavorassimo su un supporto rosso. Dopo tutto, i nonni sarebbero giunti per trascorrere con noi il Natale, no? Io, invece, che ho sempre detestato l’irruenza di quel colore, avrei voluto che ci orientassimo verso cieli tersi o prati sfiorati dal vento. Una sorta di tributo ai colori che le vacanze estive, trascorse a casa loro, ci lasciavano negli occhi in eredità. Incredibilmente, perché probabilmente fu una delle poche volte in cui ricordo di averla avuta vinta su mia sorella, lei assecondò il mio desiderio. E fra le due sfumature, scelse il verde. 
Sul foglio rosso avevamo individuato una sessantina di finestrelle, che avevamo aperto con un coltello appuntito prima e con le forbici dopo; poi avevamo riportato sul secondo cartoncino tutti i contorni delle aperture e all’interno di ogni spazio così creatosi avevamo disegnato ‘qualcosa’. Sessanta brevi immagini, che ognuna di noi due aveva progettato nella sua testa con assoluta dedizione, molto probabilmente a discapito dell’attenzione  regalata alle nostre maestre mentre eravamo a scuola, e che avrebbero dovuto aiutarci a superare i circa due mesi di attesa. 
L’ultimo ricordo che avevamo dei nostri nonni era per entrambe sbiadito dietro un velo di lacrime: la banchina del treno, le valigie che mamma e papà depositavano una dopo l’altra sui gradini della carrozza, i volti tirati degli adulti che a fatica si inventavano il loro sorriso più ampio mentre agitavano le mani in segno di saluto. Che cosa sarebbe potuto andar male, infatti? Non era forse una meravigliosa opportunità, di vita e di lavoro? Ma perché nessuno di loro provava quel senso di disperante perdita, di tragedia assoluta, che si era impossessato di me e di mia sorella?
Lì, dentro quella carrozza, con le lacrime che sgorgavano senza argini mentre i polpastrelli sfioravano il cotone ruvido delle lenzuola messe a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, per noi due bambine iniziò la malattia del ritorno. Ci guardammo e giurammo reciprocamente che mai e poi mai avremmo accettato di vivere fuorché contando i giorni che ci separavano dal rientro in Italia, dal ritorno al nostro appartamento al sesto piano... e ai nostri cari nonni.
Se avessimo saputo, allora... Se avessimo saputo che cosa sarebbe accaduto  di lì a una ventina d’anni...

In ogni caso, dopo due mesi o poco più, era finalmente giunto il gran giorno! Sospetto che anche mia madre non avesse chiuso praticamente occhio quella notte, ma io e mia sorella eravamo a dir poco euforiche: aprivamo di continuo la grande portafinestra per fare la spola tra la cucina e il balcone, correvamo in camera per guardare l’orologio appeso alla parete (io avevo appena imparato a leggere le ore e, sebbene fossi ancora un po’ titubante nell’impresa, riuscivo abilmente ad intuire sul quadrante il tempo che avrebbe dovuto separare i nonni da noi). Nostra madre, quando quel giorno era venuta a prenderci a scuola, ci aveva detto che i nonni la avevano chiamata da una cabina prima di imboccare il tunnel del Monte Bianco. Io e mia sorella quasi avevamo lanciato in aria le nostre cartelle gridando “evviva!” a più non posso e nostra madre ci aveva trattenute a stento, per non essere anche lei obbligata a percorrere di corsa il tragitto fino a casa. “Ma sei sicura, mamma, che sappiano arrivare fino a casa nostra?”, “E come facciamo a sapere se non hanno bucato, se c’era traffico sull’autostrada, se non si sono persi entrando a Parigi?”... era come quando hai desiderato troppo qualcosa: ti sembra impossibile che il tuo desiderio si realizzi veramente.
Invece, ad un certo punto, mentre il sole stava abbandonando anche il lato opposto del grande viale sul quale affacciava il nostro appartamento, Matilde si sbracciò oltre il parapetto e per un istante temetti di vederla volare giù. Eruppe in uno stridulo “Eccoli!!!”, indicando una Fiat 131 che aveva puntato il muso verso l’ingresso del nostro garage, messo le quattro frecce e che pareva piuttosto disorientata sul modo di procedere. “Mamma!!! Matilde ha ragione! Sono loro! Sono arrivati! Ho riconosciuto la macchina del nonno!”
Nemmeno ricordo che cosa accadde quando ci ritrovammo tutti insieme: sospetto che il desiderio che avrei adesso di rivivere quegli istanti si possa confondere con i brandelli di ricordo che mi restano incastrati nella memoria. Certamente, per me e mia sorella era già la sera di Natale...


Durante la mattina, mentre noi bambine - io in prima e mia sorella già in terza elementare - ci destreggiavamo fra lettere, canzoni, articoli e verbi, il nonno si dedicava al suo personalissimo e dettagliatissimo viaggio all’interno delle meraviglie di Parigi. Ci accompagnava a scuola e poi, semplicemente... non rientrava: vagabondava per le avenues e i boulevards, inesorabilmente a piedi.  Quell’uomo distinto, di certo non più giovane, partiva così all’avventura, probabilmente con un libro sotto il braccio e con gli occhi fissi intorno a sé. Chilometri e chilometri ogni mattina, mentre figlia e moglie probabilmente compivano missioni assai più prosaiche dal panettiere o dal macellaio. A pranzo,  poi, quando ci riunivamo tutti e cinque, raccontava le sue scoperte.  Fiorendole di dettagli o fors’anche invenzioni, da grande affabulatore qual è sempre stato. In ogni caso, conobbe l’anima della città più lui, in quel rituale mese all’anno che veniva a trascorrere a casa nostra, che noi ad averla vissuta in modo continuato per oltre cinquemila giorni.

Fu allora, esito di quel primo mese di ‘pellegrinaggi’ mattutini, che giunse a casa nostra un dolce che non ebbi mai più occasione di assaporare. “Oggi sono stato in rue St. Dominique, bambine. Dietro a Les Invalides, se camminate, camminate, vi troverete ad un certo punto davanti ad un negozio molto elegante. Si chiama Le Moulin de la Vierge. Nella leggenda che ne narra l’origine si intrecciano le parole di un disgraziato mugnaio, della madre di Gesù e nientedimeno che... del diavolo in persona!”. Mentre ascoltavamo il nonno raccontarci una storia che si perdeva sei secoli prima e che nessun normale turista avrebbe mai potuto scovare, una storia che sicuramente egli era riuscito a farsi offrire dal titolare della panetteria, probabilmente istigandolo a prendersi una pausa e fumarsi una sigaretta sul marciapiede, noi eravamo tutt’occhi per ciò che - trascinato dalle sue parole - troneggiava al centro del tavolo. Nell’ora della merenda, comparve infatti un pacchetto incartato di nero, abbellito da un nastro di seta verde. Sembrava che provenisse da una gioielleria e non da una panetteria! Solo il profumo di dolce lievitato ne faceva trasparire l’effettiva origine. Matilde ed io lo scartammo con devozione, addirittura bisbigliando, e facendo attenzione a non schiacciarne il contenuto. Dall’ abbondante involucro cartaceo emerse un dolce dorato e lucido in superficie. Nostra madre si affrettò a prendere un coltello dal cassetto della cucina e iniziò ad affettarlo. Mio nonno se n’era già andato in un’altra stanza: “il faut manger pour vivre et non pas vivre pour manger” avrebbe probabilmente declamato, come Arpagone, se lo avessero interpellato sull’utilità dello stare a tavola! Io e mia sorella - e mia nonna! - fortunatamente siamo sempre state di tutt’altro parere: in quel pomeriggio che già volgeva in serata, sotto la luce debole del lampadario, assistemmo voluttuosamente alla distribuzione delle fette di brioche. Ci parve innanzitutto incredibile come quella mattonella morbida avesse potuto mantenere, anche a distanza di ore, un tepore residuo che si faceva, se non vapore, perlomeno profumo: esso pareva racchiudere sia le note del dolce che quelle del salato ed emergeva senza ritegno dalla mattonella misteriosa ogniqualvolta la mamma ne tagliava una fetta.

Credo di ricordare che fu solo per l’intervento perentorio di mia madre che ne salvammo un’ultima fetta per mio padre. Quando rientrò a casa, quella sera,  di sicuro non notò alcunché di diverso, che non fossero i suoceri. Mugnai e diavoli se ne erano già volati via, trasportati dal profumo più intenso che esista: quello della pasta lievitata.